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Il successo delle prime incisioni di Elvis fu scandaloso. Fu soprattutto l’impossibilità di connotare il suo stile, che trasgrediva ad ogni classificazione razziale, a sconcertare. Sam Phillips, nell’introdurre il suo artista a Horace Logan, organizzatore del Lousiana Hayride, una manifestazione dedicata essenzialmente ad un pubblico bianco amante della country music, per ottenere un’apparizione di Elvis, una dovette ribadire più volte che si trattava di un “white boy”, tanto spiazzante risultava in quel contesto la sua sonorità. Non tutti i critici sono concordi nel riconoscere però questa, per così dire, discendenza. Nelson George, un scholar nero, nel suo classico studio The Death of Rhythm and Blues, pur ammettendo che il giovane Presley “più di ogni altra stella del rock’n’roll arrivò vicino a catturare la esibita sessualità di molti artisti neri di R&B”, e ancora che la sua musica “aveva spaventato genitori e guardiani della segregazione razziale”, non ha il timore di affermare che Elvis, come la sua carriera adulta avrebbe dimostrato, fosse “un artista con limitate ambizioni musicali e nessuna reale dedizione a quello stile nero che lo avevano reso così pericoloso”.
Quello che rendeva veramente pericoloso Elvis in quegli anni non era in ogni caso solo la sua musica; era il modo in cui sul palco interpretava la musica, erano quelle “lascive contorsioni che eccitavano la folla”, come ebbe a dire in un rapporto il capo della polizia di Louisville, a sconcertare l’America benpensante e maccartista degli anni Cinquanta. Un uso del corpo –Elvis the Pelvis- tipico degli afroamericani, e per questo inaccettabile. Era un rifiuto di un intero fenomeno, il rock’n’roll, che accanto ad artisti bianchi quali Presley, all’interno del quale si vedevano primeggiare artisti neri quali, Chuck Berry, Little Richard, Fats Domino, Bo Diddley. Nel Sud segregazionista, in particolare, gli attacchi a quelli che venivano definiti “congo rhythms” o “jungle music” si fecero più virulenti. Il rock’n’roll, accanto alla storica decisione pronunciata il 17 maggio 1954 dal chief justice Earl Warren, comunemente ricordata come Brown vs. Board of Education of Topeka, Kansas, che dichiarava incostituzionale la separazione scolastica su base razziale – il famigerato principio “separate but equal”- , sembrarono essere due fattori che, nel promuovere l’integrazione razziale, avrebbero messo in moto un processo di dissoluzione morale della società americana.
Quand’è che Elvis diventò bianco?
Se si prende in considerazione la produzione di Presley dal momento dell’abbandono della Sun per la RCA (agosto 1955) fino alla sua partenza per il servizio militare in Germania (marzo1958 , il legame con la musica nera resta più che solido. In questo periodo, grazie anche e/o soprattutto a canzoni di artisti neri o da rese popolari da, quali I Got A Woman (Ray Charles); Money Honey (Drifters); My Babe Left Me e So Glad Yo’re Mine (Big Boy Crudup); Tutti Frutti (Little Richard); Lawdy, Miss Clawdy (Lloyd Price); Shake, Rattle and Roll (Big Joe Turner); Hound Dog (Big Mama Thorton); Don’t Be Cruel e All Shook Up (Otis Blackwell); I Need You So (Ivory Joe Hunter); One Night (Smiley Lewis), alle quali per altro andrebbero aggiunte quasi tutte le composizioni del duo Jerry Leiber e Mike Stoller, -due autori considerati in ragione della loro vena bluesy “white negroes” dal critico sopraricordato Nelson George - canzoni quali Jailhouse Rock, Treat Me nice, Baby I Don’t Care, King Creole, Elvis costruisce la sua regale leggenda.
Nel suo ritorno in sala d’incisione, (Elvis Is Back, 1960) la scelta delle canzoni è ancora fortemente black-oriented: c’è la classica versione di Fever, ancora di Otis Blackwell, il blues standard Reconsider Baby di Lowell Fulsom, o le bluesy songs quali Dirty, Dirty Feeling di Leiber e Stoller, A Mess of Blues di un altro leggendario duo di autori Doc Pomus e Mort Shuman.
Ma è proprio da questo momento che, tuttavia, Elvis “take off” la sua blackness seguendo una consolidata tradizione dell’entertainment tipica dei blackface performers: raggiungere il successo assumendo sembianze afroamericane per poi, una volta raggiunto il successo, abbandonarle e rientrare nei confini razziali di appartenenza. Così come molti altri che prima di lui avevano reso popolare la cultura afroamericana, Presley “aveva iniziato ai margini della whiteness” sottolinea David Roediger “ma col passar del tempo durante la sua carriera finì per controllare i confini razziali da una posizione razziale di maggiore controllo”. Ovviamente, principale artefice/colpevole di questo processo di igiene razziale dell’immagine di Elvis sarebbe secondo molti il suo manager, fac totum, il Colonello Tom Parker. E’ indubbio che il nuovo corso della carriera artistica di Elvis sotto l’egida di Parker sia stata segnata in questo senso: la ventina di film che Presley interpretò negli anni Sessanta sembrano essere una prova evidente del suo ingresso nel “white business”. Simbolicamente per altro, Parker aveva sancito il “crossing back” della linea del colore da parte di Elvis al ritorno del servizio militare con un’apparizione del suo protetto al Frank Sinatra Timex Show, mandato in onda il 12 maggio del 1960 dalla ABC. Qui Elvis, duettando con “The Voice”, paga il suo tributo al simbolo stesso della celebrità etnica bianca: quel Frank Sinistra i cui dischi venivano dati come premio per il concorso “Why I Hate Elvis”, e che aveva definito il rock’n’roll un genere “cantato, suonato e scritto per lo più da scimmiotti cretini”. Rinchiuso a Graceland, una mansion situata appropriatamente, si potrebbe dire, a Whitehaven nella suburbia di Memphis, Elvis andò via via perdendo tutti i contatti con quelle radici nere che avevano contraddistinto la sua musica, quel suono magicamente prodotto negli studi della Sun.
Sul finire degli anni sessanta, dopo un decennio passato ad interpretare una seria infinita di sciocchi film e incidere esangui canzoni, Elvis ebbe un sussulto. L’occasione gli fu fornita da quello che viene ricordato come The’68 Comeback Special, un programma trasmesso nel dicembre del 1968 dalla NBC. Si tratta di uno spettacolo di circa un’ora, dove numeri musicali in stile Broadway con balletti, coreografie, orchestrazione, si alternano a una performance “unplugged” che vede impegnato Elvis con i suoi vecchi parterns dei tempi della Sun, Scotty Moore e D.J. Fontana. In questa parte dello show Elvis rispolvera i vecchi classici con una verve e una carica a volta inaudita. Indossando una vestito di pelle nera, quasi a richiamare la “blackness” della sua musica, scherza con gli amici sugli esordi ormai lontani, –“quando abbiamo cominciato, nel 1912?” dice rivolgendosi a Scotty Moore- ribadisce una volta per tutte l’origine del rock’n’roll - “ci sono stati grandi cambiamenti nella musica, grandi miglioramenti(…) mi piacciono alcuni dei nuovi gruppi, i Beatles, i Byrds e altri ancora (…) ma la loro musica, il rock’n’roll è essenzialmente gospel e rhythm and blues e da essi è scaturita”. Per alcuni minuti Elvis si rituffa in un passato che ormai non gli appartiene più: aggredisce la chitarra con una furia inaudita, i movimenti del suo corpo –la sua celebre smorfia del labbro, l’ondeggiare sensuale delle anche- sono per una volta ancora quelli scandalosi del King of rock’n’roll, un re che da tempo ha lasciato il suo trono vuoto.
Tra le canzoni proposte c’è né una in questo senso particolarmente significativa, Baby, What You Want To Me Do, un blues del grande Jimmy Reed, che Elvis esegue per ben otto volte nei sei giorni di registrazione dello spettacolo. Questa canzone diventa una sorta di ossessione: Elvis ne sembra attratto irrimediabilmente, ripeterla più e più volta sembra essere un tentativo di esorcizzare quei demoni –blue devils- del passato che ancora si agitavano dentro di lui e mai lo avrebbero abbandonato.
Lo show si conclude con un brano, If I Can Dream, scritto per l’occasione da un autore nero Earl Brown. Composta alla vigilia di grandi tragedie americane, gli assassini di Robert Kennedy e Martin Luther King, Jr, la canzone è un accorato appello alla riconciliazione e alla pace, un richiamo alla fratellanza e alla comprensione universale. Elvis la canta con grande trasporto, in uno dei rari casi in cui egli non presta alcuna attenzione ai limiti formali. Ma ormai si è compiuto un processo irreversibile: indossando un abito candido, dopo aver tagliato il cordone ombelicale che legava ad un tempo, Elvis, come ci ricorda Eric Lott, sembra così definitivamente sancire “la necessaria soppressione della blackness in the making of American whiteness”.
Da questo momento Presley sarà quell’icona della cultura bianca americana che noi ben conosciamo: l’Elvis con i suoi abiti bianchi, fregiati dall’aquila americana, dei celebri concerti a Las Vegas o alle Hawaii, Elvis fotografato con il presidente Nixon, o con il segregazionista governatore dell’Alabama George Wallace, Elvis amministrato in maniera più che spregiudicata dal Colonnello Parker, autorecluso a Graceland, protetto dalla Memphis Mafia. Nelle registrazioni di questi anni, riaffiora d’ogni tanto nella scelta di alcuni canzoni, quella radice nera che così fortemente aveva marcato la sua produzione iniziale: così non possono essere dimenticati alcune straordinarie incisioni blues quali Tiger Man di Joe Hill Louis, My Babe di Little Walter, Merry Christmas, Baby, di Johnny Moore, Just A Little Bit, di Rosco Gordon, Stranger In My Hometown di Percy Mayfield, o ancora brani di Ivory Joe Hunter, uno degli autori neri preferiti da Elvis.
Recentemente lo storico Pete Daniel, riferendosi alla situazione del Sud degli Stati Uniti negli anni Cinquanta ha parlato di “lost revolutions”, proprio ad indicare come in quegli anni sia andata perduta una grande occasione per la società americana, soprattutto in riferimento all’integrazione razziale, e che la musica per un momento avesse potuto essere il veicolo per questo potenziale rivoluzionario cambiamento. Elvis fu uno degli attori di questa rivoluzione mancata: come altri non seppe trarre le estreme conseguenze da tale processo.
Forse, citando le celebri parole di Karl Marx, si può concludere dicendo che “gli uomini fanno la propria storia nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”.
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