Da Kataweb Musica
di Massimiliano Leva
Sembra ieri, e invece sono già passati trent’anni. Il
26 giugno 1977, Elvis The King, teneva il suo ultimo concerto. Già da tempo non era più il ragazzo snello e affascinante che con quel suo roteare pelvico, lo sguardo malizioso e le voce suadente aveva conquistato anni prima il mondo e aperto porte come forse mai nessuno aveva osato prima di lui. Dagli anni ‘60 si era ritirato a Hollywood, catturato dal grande schermo. Sommerso dalle sue fortune. Circondato da un entourage a sua disposizione per ogni vizio. Era ingrassato, schiacciato dalle droghe e dalla sua stessa fama. Lontano miglia e miglia dal ragazzo appena ventenne che timidamente si era affacciato sulla storia con la sua musica nuova. Eppure, la sera del 26 giugno di trent’anni fa, quando alle 20:30 salì sul palco della market Square Arena di Indinapolis bardato come al solito con lustrini, giacca di pelle e zazzera impomattata, Elvis fece ancora una volta epoca. Indipendentemente dalla sua volontà. Perché, nessuno avrebbe predetto che poche settimane dopo, il 16 agosto, il Re se ne sarebbe andato. Lasciando un vuoto che nessuno (forse solo i Beatles) ha mai potuto colmare.
La date del rock sono incerte come le vite dei santi. Per esempio, è tutto da vedere se sia stato Elvis a inventare il rock’n'roll. Un po’ come per il primo essere umano nello spazio, ci sono arrivati prima i sovietici, ma a quell’epoca gli americani sapevano promuovere meglio ogni evento. E così in pochi si ricordano oggi della cagnolina Laika, ma tutti hanno visto almeno una volta l’uomo camminare sulla luna. Elvis, se non fu l’inventore del rock, fu comunque il più grande idolo pop di tutti i tempi. Il piede che per primo tocco il suolo dell’universo giovanile, sconvolgendolo come un terremoto. Così, quando dopo l’esilio hollywoodiano, nel 1968 tornò a sorpresa sulle scene, anche se l’idolo era cambiato, per lui fu di nuovo un successo. Mancava forse il fascino di un tempo, il suo tocco di Mida. Ma la fisicità sul palco era sempre la solita. In fondo, era stato The King a stabilire quali fossero le regole per comunicare con il pubblico. Qualsiasi cantante rock, dopo di lui, se non avesse attinto almeno un segreto da Presley, non sarebbe mai stato considerato.
Anche quella sera a Indianapolis, quindi, il bacino ricominciò a roteare e lo spettacolo prese subito la piega giusta. Elvis salì sul palco tonico, concentrato, disinvolto nel passare da un giubbotto di pelle nero a un candido abito di scena bianco, capace con grande disinvoltura di sciorinare per il piacere del pubblico i suoi classici, compresi vecchi e cari standard rock & roll. Da
Johnny B. Good a
Don’t be cruel. Da
Hound dog a
Jailhouse rock. Del resto, neppure lui poteva permettersi di tagliare con il passato: soprattutto quando il passato significava milioni di dischi venduti. Si concesse anche un paio di cover -
What I’d say di Ray Charles e
Bridge over trouble water di Simon and Garfunkel. Poi, dopo quasi due ore di musica, con
Clasing Lamp, si concedò.
Nessuno avrebbe mai detto che quella sarebbe stata la sua ultima esibizione. Come per i Beatles, undici anni prima, tutto sarebbe stato scoperto qualche mese dopo. Con la tristezza che non solo un mito se ne andava, ma anche un’intera epoca con tutto ciò che di buono o cattivo aveva portato. E quando, il 16 agosto 1977 Elvis morì, il rock davvero non sarebbe stato davvero più lo stesso. Per ironia della sorte, in un momento in cui, con la rivoluzione punk in atto, le nuove generazioni speravano di azzerare tutto sin dall’inizio.
(27 giugno 2007)