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Vecchio 15-08-2007, 08:09
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NEWS 14/8/2007 MARINELLA VENEGONI




Un sound contro il razzismo

Fra i misteri mai fino in fondo sondati che spiegano il successo di Elvis Presley e l’enorme influenza che la sua musica ebbe sulla cultura dell’epoca, c’è pure quello d’una effettiva quanto involontaria spinta rivoluzionaria che lui, semplice ragazzo del Tennessee, avrebbe dato alla politica dell’apartheid ancora imperante, a quei tempi, negli Stati Uniti del Sud. Proprio nella sua Memphis, appena qualche tempo prima che spuntasse la stella di Elvis, la censura aveva vietato Anna, prendi il fucile perché il copione prevedeva la presenza di un conducente nero di colore, con la motivazione: «Lo spettacolo non può essere rappresentato perché promuove l’uguaglianza tra le razze».

Erano regole sociali che parevano intoccabili, Presley cominciò a scompaginarle, pur inconsapevolmente. Niente come la musica, si sa, arriva subito dentro l’anima, saltando ogni mediazione: e a metà dei 50 l’apparizione dal nulla di quel bel ragazzo bianco, il suo modo di cantare e, insieme, di muoversi come un ossesso, unendo due esigenze che a lui parevano imprescindibili, scossero nel profondo il costume quotidiano e il consumo musicale dei bianchi, ben appesi alla tradizione separatista del country. Si aprivano orizzonti nuovi, si creava una progressiva accettazione della matrice nera del ritmo: non ancora dichiarata apertamente, e però carica di presagi. Non a caso, i primi cinque dischi del futuro re del rock per la Sun Records avevano su una facciata un country, e sull’altra un blues: gli adolescenti bianchi che cominciavano ad ascoltare Elvis, le ragazze che svenivano al suo passaggio, si aprivano al mondo di quegli altri giovani che con loro non avrebbero potuto condividere - fino alla metà dei 60 quando ci fu l’abolizione della segregazione razziale - né i banchi di scuola, né i posti al cinema o sull’autobus.

Questo risvolto sociologico del ruolo di Presley fa da sfondo a un romanzo epistolare uscito da Azimut qualche settimana fa e con lo stesso titolo della versione originale americana, The Year the Music Changed, di Diane Thomas. Ritrae un Elvis ancora sconosciuto alla gloria, che nella propria città si trova a proprio agio solo tra i bar e i caffè musicali di Beale Street, lo stradone colorato dove dominano gli swinganti giovanotti neri vestiti di abiti colorati ch’egli prende a modello, la via che ogni sera risuona dei ritmi e degli strappi sonori che il meglio degli artisti afroamericani, da B.B.King a Rufus Thomas, fa piovere sui marciapiedi affollati di gente di colore. A questo ragazzo, che incide con Sam Phillips That’s All Right Mama, scrive da Atlanta una educata lettera di complimenti l’adolescente Achsa: «Lei canta quella musica nuova che chiamano rock’n’roll, o rhytm’n’blues quando è un negro che canta». Gli pronostica un grande successo e, miracolo, Elvis risponde. Racconta alla fan i suoi progressi, le indecisioni, l’amore per la madre, l’assalto via via più imperioso delle fans, l’incontro con il famoso Colonnello che farà esplodere la sua carriera. Dall’altra parte del romanzo, c’è la ragazza - futura attrice di successo - complessata da una cicatrice e stretta dentro una inquietante coppia di genitori: il padre ottuso, è ossessionato dalla sfolgorante bellezza della moglie, che finirà in modo misterioso, portandosi dietro i propri segreti; ma Achsa saprà penetrarvi, scoprendo impensabili disagi razziali. L’autrice immagina di aver ricevuto dallo stesso Elvis un plico con le lettere, a pochi giorni dalla drammatica fine del re del rock; un modo inconsueto per conoscere una sfaccettatura di Elvis non consumata dall’uso, a trent’anni dalla morte.
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