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Da Panorama
Se interessa....
La toscanaccia che si specchiava nel mondo Oriana Fallaci La sua è stata una incessante autobiografia intellettuale e umana. Amava gli Stati Uniti e ci si trasferì come corrispondente. Milioni di libri venduti e i critici spaccati in due. Volendo condensare in una battuta il senso della vita di Oriana Fallaci, scomparsa a 77 anni per colpa dell'Alieno, come la giornalista e scrittrice fiorentina chiamava il tumore al polmone contro il quale, mai soccombente, combatteva da anni, bisognerebbe ricorrere a un felice titolo narrativo di Cesare Zavattini: Parliamo tanto di me. Sia che scarpinasse fra le paludi del Vietnam come corrispondente di guerra, sia che intervistasse con l'aggressività che le era propria i potenti della Terra, da Indira Gandhi a Muhammar Gheddafi, da Yasser Arafat a Henry Kissinger, Fallaci non faceva che tessere il nuovo capitolo di un'incessante autobiografia intellettuale e umana, attuata ora con le armi giornalistiche dell'intervista e del reportage, ora con quelle della confessione romanzesca, fino alla polemica e all'invettiva. Forme espressive, queste ultime, quanto mai adatte a una "maledetta toscana": un titolo onorifico, caro tanto a Curzio Malaparte quanto a Indro Montanelli, al quale Oriana l'amerikana, fiera del suo caratteraccio, non avrebbe mai rinunciato. Negli States viveva ormai da decenni in un misantropico isolamento newyorchese che alimentava l'automitologia del personaggio. Abitava nell'Upper East Side di Manhattan, ma gli ultimi mesi li ha voluti vivere a Firenze, dove era nata il 29 giugno del 1929 e da cui non si era mai sradicata nonostante i vagabondaggi in tutto il mondo. L'America l'aveva attratta fin dalla giovinezza. Non a caso il suo esordio in libreria avvenne con I sette peccati di Hollywood (Longanesi 1956): un grandangolo sulla mecca del cinema proprio nell'anno in cui Elvis Presley faceva esplodere il rock'n'roll e trasformava il costume di casa. Già il successivo Penelope alla guerra del 1962, pubblicato da Rizzoli come poi tutti i libri successivi, può essere visto come un'autobiografia romanzesca dell'autrice, trasparente dietro la fisionomia della protagonista Giò, sceneggiatrice italiana di successo spedita dal suo produttore a caccia d'idee nella Grande Mela. "Ogni volta che passava davanti allo specchio" ce la descrive Oriana, rispecchiandosi, "non riusciva a vincere la tentazione di guardare ciò che al mondo la interessava di più: se stessa". Lungi dall'essere un limite, questa forma di nacisismo florido è stata l'arma letale che ha imposto Fallaci nel mondo. Immaginate Dante Alighieri richiesto di stendere un reportage della battaglia di Campaldino (dove combatté per la sua Firenze contro gli aretini). Difficile aspettarsi, pur nello scrupolo cronistico, qualcosa di neutrale. Ecco: che fosse in Vietnam o tra le bombe di Beirut, Fallaci si metteva davanti alla macchina per scrivere con identico spirito battagliero. Capace com'era, e forse desiderosa, di mandare all'inferno tutti quanti. Una vocazione, questa, giunta a piena maturazione dopo l'attentato alle Twin towers dell'11 settembre 2001 con la trilogia aperta da La Rabbia e l'Orgoglio, in cui una decisa battaglia anti islamica s'accompagna a un'altrettanto netta critica all'Occidente in crisi d'identità. Libri che hanno fatto scalpore e suscitato infinite discussioni. Perché, toscanaccia anche in questo fino al midollo, a Oriana è sempre riuscito di spaccare in due il mondo: da una parte Guelfi e dall'altra Ghibellini, da un lato partigiani sfegatati e, dall'altro, altrettanto feroci avversari della sua opera. Oriana aveva mosso i primi passi nel mondo del giornalismo nella Firenze, postbellica. Era figlia dell'antifascista, Edoardo Fallaci e, ancora ginnasiale, lo aveva aiutato a distribuire giornali antiregime, per poi distinguersi come giovanissima staffetta partigiana durante la liberazione di Firenze, nell'agosto del 1944. I primi articoli li scrisse per il Mattino dell'Italia centrale, ma ben presto si trasferì a Milano, lavorando dapprima per il mondadoriano Epoca, quindi come inviata e corrispondente dagli Stati Uniti per il rizzoliano L'Europeo, al quale continuò a collaborare fino alla chiusura della testata. A neppure trent'anni, Oriana è già una firma. Oriana Fallaci con Pier Paolo Pasolini e Camilla Cederna a Venezia Agli anni Sessanta e Settanta appartengono i reportage dalle zone calde del mondo, Vietnam e Medio Oriente in testa, che la rendono famosa. E poi le interviste: da Federico Fellini a Golda Meir, dallo scienziato atomico Werner von Braun (del quale ricorderà "l'odore di limone") all'ayatollah Khomeini. Collabora con le più prestigiose riviste internazionali, da Life al New York Times Magazine, a Stern. In parallelo procede la sua attività letteraria: "Iniziai a scrivere a 16 anni" ricordava "quando divenni reporter a Firenze. Ho iniziato con il giornalismo per diventare scrittrice". È una dichiarazione significativa. La storia del Novecento è piena di letterati "prestati" al giornalismo e, talvolta, mai più restituiti. Ma, mentre per Eugenio Montale come per Dino Buzzati, per Guido Piovene come per Giovanni Arpino il rapporto a tutti gli effetti professionale con i giornali si configurava pur sempre come un "secondo mestiere" (la definizione è di Montale stesso), nel caso di Oriana Fallaci c'è qualcosa di diverso: il tentativo di scardinare la porta stretta della letteratura non "malgrado", ma "proprio" grazie al robusto grimaldello del giornalismo. A giudicare con il metro del successo presso i lettori di oltre 30 paesi, misurabile in 20 milioni di copie vendute, l'impresa le è riuscita. Al botteghino Fallaci non ha mai sbagliato un colpo: a partire dal diario vietnamita Niente e così sia (1969) a Lettera a un bambino mai nato (1975), best-seller da 2 milioni di copie solo in Italia, con il tema cruciale dell'aborto trattato in chiave autobiografica, fino a Un uomo (1979), dedicato al suo compagno Alekos Panagoulis, eroe della lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia. Dopo 11 anni di silenzio esce un altro best-seller, Insciallah, ambientato nel Libano insanguinato dalla guerra tra musulmani e cristiano-maroniti e incardinato sulla formula del fisico Ludwig Boltzmann per calcolare l'entropia d'un sistema, dalla Fallaci definita "la formula della Morte". Altri 11 anni ed ecco la "trilogia dello scontento": a La Rabbia e l'Orgoglio (2001), pamphlet contro il fanatismo islamico ma anche contro la mediocrità dell'Occidente, segue l'altrettanto duro La forza della ragione (2004) e, lo stesso anno, Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Ancora un modo di rimirarsi allo specchio, come la ragazza Giò di Penelope alla guerra. Le idee decisamente radicali dell'ultima Fallaci sono state molto discusse e restano assai discutibili. Una valutazione serena del suo stile letterario, talvolta ridondante e retorico, dovrà passare attraverso la macina del tempo, che vaglia la farina e la separa dalla crusca. Resta, per ora, lo sconcerto per la perdita d'una persona che pareva inossidabile, in grado di dare scacco anche alla "formula della Morte". Dal suo solitario esilio americano, Oriana Fallaci ha continuato a essere una presenza ineludibile e polemica, salutarmente scomoda. Negli ultimi tempi si definiva "atea cattolica" e aveva incontrato papa Ratzinger. Probabilmente si stava solo preparando a strappare un' intervista al Padreterno. In tal caso, nessuno di noi vorrebbe essere nei panni dell'Onnipotente. |
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