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  #101  
Vecchio 13-11-2007, 17:26
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Sul più bello della mia immaginazione , mi sentii chiamare da mia madre che, di ritorno dagli acquisti, scusandosi con il titolare per la mia impertinenza, mi trascinò via da lì nonostante facessi opposizione; e solo quando vidi arrivare sul mio viso alcuni poderosi ceffoni che mi fecero immediatamente ritornare alla triste realtà, mi calmai e, me singhiozzante, ce ne tornammo a casa............(continua)

Gondar.

Ciao Gondar! Forte...il video con le lezioni musicali...poi...mi spiace che abbuscasti (che le prendesti da tua mamma)...all'uscita del negozio...anche se ti posso capire...i rovesci e le schiacciate di pallavolo le ho prese anch'io...
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  #102  
Vecchio 13-11-2007, 17:43
Gondar Gondar Non in Linea
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perlanera Visualizza Messaggio
fantastico gondar, sei un'ottimo narratore.
basta chiudere gli occhi, e si ha la sensazione di rivivere accanto a te nel passato.
Grazie, Perlanera. Gondar.
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  #103  
Vecchio 13-11-2007, 17:45
Gondar Gondar Non in Linea
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Ciao Gondar! Forte...il video con le lezioni musicali...poi...mi spiace che abbuscasti (che le prendesti da tua mamma)...all'uscita del negozio...anche se ti posso capire...i rovesci e le schiacciate di pallavolo le ho prese anch'io...
Sarei disposto a ricevere un milione di schiaffi pur di avere mia mamma ancora con me. Gondar.
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  #104  
Vecchio 13-11-2007, 17:52
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Sarei disposto a ricevere un milione di schiaffi pur di avere mia mamma ancora con me. Gondar.

Ti capisco, Gondar, ma sono sicura che la tua mamma è sempre con te!
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  #105  
Vecchio 13-11-2007, 18:06
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Sarei disposto a ricevere un milione di schiaffi pur di avere mia mamma ancora con me. Gondar.
Certo Gondarino...nulla può sostituire un affetto così importante come la propria mamma o il propiro papà!!!! Non si può fare altro che amarli in eterno!!!!
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  #106  
Vecchio 15-11-2007, 16:35
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Giochi proibiti

Oggi, riprendendo la descrizione dei giochi tralasciati qualche posting fa, voglio farvi partecipi di quello del tiro con l’arco, uno dei giochi artigianali ma estremamente pericolosi e capirete poi perché. Ci si procurava un vecchio ombrello, si eliminava la copertura in stoffa e si estraevano tutti i ferri o bacchette di tenuta. Con la prima bacchetta, vi si annodava ad una punta uno spago fino ma robusto, lo si arcuava quanto bastava e si riannodava lo spago nell’occhiellino dell’altra punta fino a formare un arco. Con le altre, si appuntivano con una lima una per una le estremità, dopo aver eliminato l’occhiello, e si divaricavano le altre punte. Così si realizzava l’arco con tante frecce. Muniti poi di un pezzo di gesso, si procedeva a riportare, servendoci, a mo’ di falsariga, di vari coperchi di pentolame, quattro o cinque cerchi concentrici su un portone in legno che dava di solito in una stalla di uno di noi e si riportavano i numeri progressivi corrispondenti ai vari punti. Ed iniziava la gara per il raggiungimento del maggior punteggio. Ponendoci, quindi, alla distanza di circa quattro metri, si iniziava a lanciare ciascuno, a turno, la propria freccia e trascrivendo i vari punteggi ottenuti sulla parte liscia dell’antistante marciapiede o sulla parete attigua. Era compito dei rispettivi titolari delle frecce scoccate estrarre le proprie dal portone. Questo era un gioco che intrigava moltissimo per il fatto che divenire campione a quel gioco significava farsi un nome nel rione. Questo dava titolo per partecipare alle gare inter-rionali. Vediamo cosa ci propone oggi questo tema.



Ebbene un bel giorno, anzi un gran brutto giorno, ci trovammo a sfidarci in quattro amici, protesi tutti all’ottenimento del miglior punteggio. Uno dei quattro, tale Antonio, dopo avere preso attentamente la mira , scoccò la sua freccia quando, improvvisamente, l’altro amico, tale Giacomo, si interpose sulla traiettoria con l'intento di togliere la sua, gli si conficcò nella parte posteriore del cranio quella di Antonio. Fu panico generale . Giacomo si accasciò a terra (erano le 12,30 di quell’estate afosa) gridando come un forsennato, mentre noi, anziché soccorrerlo, ci dileguammo impauriti. Le grida di dolore fecero accorrere tutto il vicinato e fra questi mia madre e, per fortuna, anche il papà del malcapitato che era appena tornato dalla campagna il quale, resosi subito conto della situazione , si procurò una tenaglia e gli estrasse il ferretto dalla testa. Io, come tutti gli altri, vidi tutta la scena in quanto appostato nelle vicinanze. Ero impaurito, tremante e, senza rendermene conto, piangevo piangevo e piangevo . E vi rimasi lì accucciato non so quanto tempo. Temevo che qualcuno avesse chiamato i carabinieri. Certo è che a casa non volli ritornare, né i miei si preoccuparono di cercarmi. Ed il che era peggio. Me ne andai tra i campi e mi sostenni con bacche di carruba, percochi e fichi. Io avevo tanta paura di tornare a casa e non vi tornai fino a notte fonda. Ritenendo che la porta fosse chiusa, feci un flebile tentativo bussandovi e, non ricevendo risposta, preferii scalare l’angolo di casa appoggiandomi ad alcune rientranze, fino a guadagnare il terrazzo superiore. Mi raggomitolai in un angolo, chiusi gli occhi e tentai di prender sonno . Dopo non so quanto tempo, sentii la voce di mia madre che, guardandosi attorno nella notte, mi chiamava quasi con un sussurro e, quando mi affacciai dandole voce, mi esortò di entrare in casa, ma vista la mia titubanza tenne socchiusa la porta e se ne tornò a letto borbottando. Io entrai in casa solo quando alle 5,00 sia mio padre che mio fratello vi uscirono, ed in sella alle rispettive biciclette, si allontanarono dalla mia vista per recarsi al lavoro. Un altro giorno era iniziato e non sapevo ancora quale fosse lo stato del mio amico Giacomo. Per fortuna mia madre, nel rimproverarmi mentre ero intento a fare colazione, si lasciò sfuggire, tra le altre cose, che il medico di famiglia dei vicini di casa aveva ritenuto non serie le condizioni del mio povero amico, dopo avergli applicato un unguento sulla ferita fasciandogli il capo. Ricordo che la fasciatura Giacomo se la portò per oltre un mese e, nonostante sembrasse ridicolo , nessuno di noi ci scherzò sopra nè si azzardò a giocare più con le frecce........continua
Gondar.

Ultima Modifica di Gondar : 23-01-2008 18:26
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  #107  
Vecchio 15-11-2007, 18:12
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Oggi, riprendendo la descrizione dei giochi tralasciati qualche posting fa, voglio farvi partecipi di quello del tiro con l’arco, uno dei giochi artigianali ma estremamente pericolosi e capirete poi perché. Ci si procurava un vecchio ombrello, si eliminava la copertura in stoffa e si estraevano tutti i ferri o bacchette di tenuta. Con la prima bacchetta, vi si annodava ad una punta uno spago fino ma robusto, lo si arcuava quanto bastava e si riannodava lo spago nell’occhiellino dell’altra punta fino a formare un arco. Con le altre, si appuntivano con una lima una per una le estremità, dopo aver eliminato l’occhiello, e si divaricavano le altre punte. Così si realizzava l’arco con tante frecce. Muniti poi di un pezzo di gesso, si procedeva a riportare, servendoci, a mo’ di falsariga, di vari coperchi di pentolame, quattro o cinque cerchi concentrici su un portone in legno che dava di solito in una stalla di uno di noi e si riportavano i numeri progressivi corrispondenti ai vari punti.

Gondar.
Mamma mia Gondar...mi hai fatto stare col fiato sospeso...per tutto
il racconto!!!...certo che è proprio vero che un gioco può diventare una tragedia...sono cmq felice che alla fine si sia risolto tutto per il meglio...
Non ho capito bene come si costruivano gli archi però... ricordo che anche i miei fratelli costruirono qualche rudimentale arco...ma ricordo vagamente che si legava alle due estremità del bastone una sottile striscia di copertone gommato che serviva per caricare il tiro...forse i vostri archi erano i prototipi...
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  #108  
Vecchio 16-11-2007, 08:51
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Mamma mia Gondar...mi hai fatto stare col fiato sospeso...per tutto
il racconto!!!...certo che è proprio vero che un gioco può diventare una tragedia...sono cmq felice che alla fine si sia risolto tutto per il meglio...
Non ho capito bene come si costruivano gli archi però... ricordo che anche i miei fratelli costruirono qualche rudimentale arco...ma ricordo vagamente che si legava alle due estremità del bastone una sottile striscia di copertone gommato che serviva per caricare il tiro...forse i vostri archi erano i prototipi...
Non so, Deliziosa, se erano i prototipi. Certo è che non ci costavano una sola lira (d'altronde chi ce l'aveva?). Queste realizzazioni erano frutto dell'ingegno di noi bambini, come gli altri giochi precedenti da me discritti; ma ce ne sono diversi altri. E pensare che oggi c'è un mercato di giocattoli da far paura. Allora non esistevano, almeno in Italia, e giochi e giocattoli erano tutti inventati, primo fra tutti le fionde, poi le pistole realizzate con un pezzo di legno, una molletta per appendere la biancheria, ed un vecchio elastico; stessa cosa per l'antesignano fucile ecc. Ciao. Gondar.
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  #109  
Vecchio 17-11-2007, 19:28
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Memphis Recording Service

Voglio staccare un attimo, giusto per non assopirci più di tanto parlando della mia trascorsa esperienza personale tutta proiettata al micidiale impatto che ebbi con il nostro mito, per riprendere a narrare le vicende umane di Sam Phillips , l’uomo a cui tutti noi di "Grazielvis" dobbiamo essere eternamente riconoscenti per avere egli scandagliato con illuminante caparbietà ed avere scoperto, come solo lui poteva fare, le potenzialità artistiche ed universali dell'E.T. Elvis Presley. Ebbene quest’uomo, proprio perchè, come abbiamo detto, non provava più grandi soddisfazioni nella conduzione della radio, riuscì ad aprire nel gennaio del 1950, in società con tale Jim Bulleit , uno studio di registrazione e di incisione dischi in Memphis, anche se contemporaneamente lavorava alla radio della WREC, con il preciso intento di portare all’attenzione della gente quelle strane e sofisticate performances musicali, marcatamente ancestrali dei neri. Lo slogan “Incidiamo di tutto a chiunque ed ovunque in qualsiasi momento” fece catapultare in quel piccolo studio tanta di quella “gente strana” la maggior parte della quale era proprio popolazione di colore. L’intuito di persona estremamente sensibile quale egli era, lo portava a credere che quella musica da campi di cotone prima o poi avrebbe aperto una breccia nel mondo diffidente della preponderante musica dei bianchi. Iniziò quindi a incidere musica blues e rithm’n’blues, coadiuvato da Marion Keisker che volle seguirlo nell’impresa in quanto innamorata perdutamente di lui. Qualche anno più tardi Sam dovette lasciare la radio, e Marion, verosimilmente, lo seguì a ruota nonostante la sua collaborazione pluriventennale nella WREC, per il reiterato pungente sarcasmo del suo capo redattore Hoyt Wooten con battute come “oggi non puzzi, debbo ritenere che non ti sei visto con i tuoi amici neri”. Lasciando da parte la cattiveria della gente, vediamo insieme quale tipo di produzione uscì inizialmente dal Memphis Recording Service con etichetta della “Sun Records” e che riscosse un discreto successo. Ascoltiamo per prima un brano del 1953 intitolato “Bear Cat”, precursore di “Hound Dog”, cantato da Rufus Thomas.




Ascoltiamo ora “Mistery Train”, eseguito da Little Junior Parker ed uscito con etichetta della "Sun Records" nello stesso anno.


(Little Junior Parker a 78 giri n.192: Mystery Train)

E’ in questa atmosfera che, in un afoso sabato del mese di luglio del 1953, fa il suo timido ed impacciato ingresso alla Sun Records il dipendente dell’M.B. "Parker Machinist Shop" Elvis Presley. Nel prossimo posting sarò in grado di raccontarvi per filo e per segno il colloquio integrale occorso nello storico incontro tra Elvis Presley, Marion Keisker e Sam Phillips.........continua

Gondar.

Ultima Modifica di Gondar : 23-01-2008 18:29
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  #110  
Vecchio 19-11-2007, 19:03
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Elvis alla "Sun Records"

Elvis, circa due mesi dopo aver ottenuto il diploma, con l’intento di sorprendere sua madre in occasione del suo compleanno, si recò verosimilmente in una delle cabine automatiche del centro della città ove, al costo di 25 cents, registrò una vecchia canzone intitolata “My happiness” accompagnandosi con la chitarra regalatagli tempo prima dalla madre. Per la verità, egli non vedeva l’ora di ascoltare per la prima volta come potesse essere il suo timbro vocale su un vinilico. Giunto a casa e, approfittando di una breve assenza della madre, adagiò il leggerissimo disco sul piatto del grammofono e prese ad ascoltarlo. La riproduzione, però, si rivelò un’amara delusione. Risultò talmente scadente, vuoi per la voce che non assomigliava affatto alla sua, vuoi per il suono della chitarra che era appena percettibile e stridente, vuoi per i fastidiosi rumori di fondo, da indurlo ad accartocciare il vinilico e gettarlo nella spazzatura. Era deluso e profondamente amareggiato. Ma qualche giorno dopo, e precisamente il 15 luglio 1953, gli capitò di leggere sul quotidiano locale “Memphis Press Scimitar” che il gruppo musicale “The Prisoners”, composto da cinque detenuti del non distante Penitenziario di Nashville, aveva registrato presso la sala di incisione del “Memphis Recording Service” un brano con etichetta “Sun Records” intitolato “Just Walkin’ in the Rain”, presso la cui sede erano stati tradotti sotto scorta, con il benestare del direttore di quel carcere, circa un mese prima. Per lui questa notizia rappresentò il classico cacio sui maccheroni. La novità suscitò non poca curiosità nella popolazione ed il disco andò a ruba, almeno in ambito locale. Per la cronaca, questo disco venne ripreso tre anni dopo da Johnnie Ray che ebbe un grande successo negli U.S.A. Ascoltiamo insieme questo interessante brano.

#

Elvis acquistò il giorno stesso quel disco e lo ascoltò molte volte convincendosi sempre di più, forte della convinzione - nonostante tutto - di poter di fare meglio, che doveva assolutamente recarsi presso quella casa discografica che trovavasi al n. 706 della Union Avenue di Memphis. Per due giorni consecutivi ci passò più volte davanti a quella casa discografica senza decidersi di fare il grande passo. Non si sentiva più tanto sicuro di osare, vista la delusione provata con l’incisione “fai da te” attuata qualche giorno prima in quella piccola cabina. Il terzo giorno, e precisamente nella mattinata di sabato 18 luglio 1953, si fece finalmente coraggio e si avviò con la chitarra a tracolla, dopo aver parcheggiato la vecchia Lincoln di famiglia, verso l’ufficio del Memphis Recording Service. Varcò la porta semiaperta che dava direttamente nella sala d’attesa e prese posto accanto ad altre persone che, evidentemente, erano lì per il suo stesso motivo. Elvis, durante le due ore ed oltre di attesa, era tremendamente nervoso e non riusciva a stare fermo. Sebbene facesse molto caldo, egli sudava freddo. Si alzava continuamente con la scusa di osservare sulla parete di fronte le diverse foto incorniciate di musicisti cantanti quali Rufus Thomas, Little Junior Parker e B.B. King o tamburellava con le dita sulle sue ginocchia attirando suo malgrado l’attenzione dei presenti. Aveva la gola secca ed era indeciso se era il caso di scappare via oppure rimanere lì ed affrontare quello che il suo animo gli imponeva. Si chiedeva continuamente cosa si aspettasse dalla vita. Egli sognava il successo, certamente, come tutti. Ma cosa poteva avere lui più degli altri per meritarselo? In cuor suo, però, c’era la risposta ed il suo angelo custode , se mai gli fosse accanto, sicuramente se la rideva di tutto gusto. Intanto il tempo passava ed improvvisamente si rese conto di essere rimasto l’unico in sala, visto che gli ultimi quattro, evidentemente facenti parte di un unico gruppo musicale, erano appena usciti. Era il suo turno . Nell’attesa di essere chiamato, mentre i tasti di una macchina per scrivere facevano sentire il loro battere al di là della porta, si accorse che erano in perfetta sintonia con i battiti violenti del suo cuore. Fece un ripasso veloce con la chitarra dei pezzi che doveva registrare, seppure sottovoce e sfiorando appena gli accordi. Fu proprio in questo frangente che sentì una voce di donna , proveniente dallo studio accanto, che lo invitava ad entrare. Elvis si alzò estraendo il pettine dalla tasca posteriore dei pantaloni e, pettinatosi con la velocità di un fulmine i copiosi capelli color biondo cenere, si sistemò i calzoni, si diede una stiracchiata alla camicia, imbracciò la chitarra, si avvicinò alla porta e aprendola con circospezione con il cuore che gli saliva ormai in gola, vi fece capolino, e chiese quasi con un sussurro e voce strozzata: “Posso entrare, vero?”. “Avanti, si accomodi” fu la risposta.......………….Quale possa essere il dialogo che avvenne quel sabato di fine luglio del 1953 negli studi del Memphis Recording Service, lo potremo appurare con molta probabilità nel prossimo posting……..Gondar.

(continua)

Ultima Modifica di Gondar : 23-01-2008 18:32
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