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Vecchio 16-08-2008, 06:04
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Ge712 16/08/1977 - Le Reazioni

LA FAMIGLIA


PRISCILLA PRESLEY - Dal libro “Elvis and Me” di Priscilla Presley (pubb. 1987)

Era il 16 Agosto 1977, una giornata coperta e afosa, non una tipica giornata del sud della California. Quando uscii nell’aria c’era una quiete, una calma innaturale, che non mi era mai capitato di percepire prima. Avrei quasi voluto tornare in casa, tanto ero incapace di scrollarmi di dosso il mio disagio. Quella mattina avevo un appuntamento e verso mezzogiorno dovevo incontrare mia sorella Michelle.
Sulla strada per Hollywood mi resi conto che l’atmosfera non era cambiata e sembrava ancora silenziosa e deprimente e aveva iniziato a piovigginare.
Appena infilai Melmose Avenue, vidi Michelle all’angolo, con uno sguardo preoccupato. “Cilla, mi disse appena mi fermai, “ho appena ricevuto una telefonata da papà. Joe sta cercando di rintracciarti. E’ successo qualcosa ad Elvis. E’ in ospedale”.
Joe Esposito era il road manager di Elvis e il suo braccio destro. Mi sentii gelare! Se mi stava cercando, doveva essere successo qualcosa di terribile.
Dissi a Micelle di prendere la sua macchina e seguirmi a casa.
Feci un’inversione a U in mezzo della strada e guidai come una pazza.
Elvis era entrato e uscito dall’ospedale tutto l’anno. C’erano volte in cui non era veramente malato, ma lo faceva per prendersi un po’ di riposo, per stare lontano dalle pressioni e magari dalla noia. Non c’era mai stato niente di veramente serio.
Pensai a nostra figlia, Lisa, che era a Graceland con Elvis e sarebbe dovuta rientrare quel giorno.
“Dio mio, pregai, fa che sia tutto a posto. Fai in modo che non gli sia successo niente, ti prego, buon Dio!!
Superai ogni semaforo rosso e quasi colpii una dozzina di macchine. Finalmente arrivai a casa e, mentre entravo in garage, da dentro casa sentii il telefono che squillava.
“Ti prego non riattaccare”, pregavo saltando fuori dalla macchina e correndo verso la porta. “Arrivo” gridavo”.
Cercavo di inserire la chiave nella serratura, ma la mia mano non smetteva di tremare.
Finalmente entrai in casa, alzai il ricevitore e urlai: “Pronto, Pronto!”
Tutto quello che riuscivo a sentire era l’eco di una chiamata che arrivata da lontano, poi improvvisamente una voce rotta e debole disse
“Cilla, sono Joe”
“Joe, cosa è successo?”
“Si tratta di Elvis”
“Oh Dio mio. Non dirmi”
“Cilla, è morto!”
“Joe, Non dirmi una cosa simile. Ti prego!”
“L’abbiamo perso!”
“No. No!” Lo pregai di rimangiarsi tutto. Invece rimase in silenzio
“L’abbiamo perso…..”
La sua voce si ruppe ed entrambi iniziammo a piangere.
“Joe, dov’è Lisa?” domandai
“Sta bene. E’ con la nonna”
“Grazie a Dio. Joe manda un aereo a prendermi, per favore. Presto, voglio tornare a casa”

Riagganciai il telefono. Mia madre e Michelle erano appena arrivate, mi abbracciarono e scoppiammo a piangere abbracciandoci l’un l’altra.
Dopo pochi minuti il telefono suonò di nuovo. Per un attimo pensai ad un miracolo: mi stavano chiamando per dirmi che Elvis era ancora vivo, che stava bene e che tutto era stato un brutto sogno.
Ma non c’era nessun miracolo “Mamma, Mamma” diceva Lisa “E’ successo qualcosa a papà”
“Lo so, bambina mia” sussurrai “Arrivo subito. Sto aspettando l’aereo”
“Mamma, stanno tutti piangendo”
Mi sentivo sfinita, disorientata. Cosa potevo dirle? Non riuscivo a trovare le parole per consolarla. Lisa non sapeva ancora che suo padre era morto. Tutto quello che riuscivo a dire ripetutamente era “Arrivo appena posso. Cerca di rimanere nella stanza della nonna, lontana da tutti”
Nel sottofondo riuscivo a sentire la voce di un Vernon disperato che gemendo, diceva “Mio figlio se n’è andato, Buon Dio, ho perso mio figlio”.
Fortunatamente l’innocenza dei bambini provvede alla loro protezione. Per lei la morte non era ancora una cosa reale. Mi disse che sarebbe andata a giocare con Laura, la sua amica.
Riagganciai il telefono e uscii stordita e ancora sotto shock.
I media stavano già trasmettendo la news. Il mio telefono non smetteva di suonare, con amici che cercavano di affrontare lo shock, membri della famiglia che volevano avere spiegazioni e la stampa che faceva domande.
Mi chiusi in camera mia, dando istruzioni che non volevo parlare con nessuno e volevo rimanere sola. Volevo morire!!!!
Negli ultimi anni eravamo diventati ottimi amici, ammettendo i nostri errori del passato e avevamo iniziato quasi a ridere dei nostri difetti.
Non riuscivo ad affrontare la realtà che non l’avrei più rivisto vivo. Lui c’era sempre stato per me. Avevamo un forte legame. Eravamo diventati molto uniti, ci capivamo di più e avevamo più pazienza l’uno con l’altro, più di quando eravamo sposati.
Avevamo persino parlato che un giorno………… Ed ora se n’era andato!
Ricordo la nostra ultima telefonata, qualche giorno prima. Era di buon umore e parlava del suo imminente prossimo tour di 12 giorni. Aveva perfino riso, mentre mi diceva che, come sempre il Colonnello aveva tappezzato con i suoi posters la prima città del tour e che già prima del suo arrivo, i suoi dischi venivano ripetutamente trasmessi. “Caro vecchio Colonnello” disse Elvis “E’ da tanto che siamo insieme e ancora fa le stesse cose. C’è da stupirsi che la gente ancora compri quelle cose”
Adoravo sentire la risata di Evis, qualcosa che era diventata sempre più rara.
Solo qualche giorno prima di quella telefonata l’avevo sentito giù di morale e stava pensando di rompere con Ginger Alden, la sua ragazza.
Lo conoscevo abbastanza bene per sapere che, per lui, questa non sarebbe stata una mossa facile da fare.
Se solo avessi saputo che sarebbe stata l’ultima volta, gli avrei parlato, gli avrei detto tante cose, cose che volevo dirgli e che non avevo mai fatto, cose che avevo tenuto dentro di me per molti anni, perché ritenevo non fosse mai il momento giusto.
Per 18 anni, Elvis era stato parte della mia vita.
Quando lo incontrai avevo appena 14 anni.
Elvis mi aveva insegnato tutto: come vestirmi, come camminare, come truccarmi e come acconciarmi i capelli, come comportarmi, come amare.
Nel corso degli anni era diventato mio padre, mio marito ed era molto vicino a Dio.
Ora se n’era andato e mi sentivo molto sola e spaventata, come mai mi sono sentita nella mia vita.
Prima che arrivasse il Lisa Marie, le ore passavano lentamente.
Dietro le porte chiuse stavo seduta e aspettavo, ricordando la nostra vita insieme con le sue gioie, i dolori, la tristezza e i trionfi.
Ci imbarcammo sul Lisa Marie verso le 21 di quella stessa sera: i miei genitori, Michelle, Jerry Schillin, Joan Esposito e alcuni amici stretti. All’inizio mi sedetti da sola, in disparte, Poi andai in fondo all’aereo, nella camera da letto di Elvis. Mi distesi, incapace di credere che Elvis era morto veramente.
Ricordai le battute che Elvis faceva sempre sulla morte. Diceva: “Devo portar qualcosa per quando lascerò questa terra” e così iniziò ad indossare al collo una catena, dove c’erano sia la croce che una Stella di David. Ci scherzava su, dicendo che voleva essere tutelato in tutti i campi, non si sa mai che per un dettaglio si ritrovasse a perdere il Paradiso.
Il viaggio sembrava non finire mai.
Appena arrivammo a Memphis, ero completamente intontita.
Onde evitare la folla di fotografi, c’era una limousine che ci aspettava, e partimmo verso Graceland a tutta velocità. Lì incontrammo le facce sconvolte, incredule e agitate dei parenti, degli amici stretti, delle cameriere, di tutte quelle persone che erano rimaste con noi per molti anni. Avevo passato la maggior parte della mia vita con loro e ora le vedevo distrutte.
La maggior parte della famiglia di Elvis – Vernon, la nonna, sue figlie Delta e Nash ed altri – erano riuniti nella stanza della nonna, mente i suoi amici e i ragazzi che avevano lavorato con lui, erano quasi tutti nel soggiorno.
Tutti gli altri camminavano su e giù per le stanze, silenziosi e composti, guardandosi intorno increduli.
Lisa era fuori in giardino, con un’amica e correva con il golf cart che suo padre le aveva regalato. All’inizio rimasi affascinata nel vedere come fosse capace di giocare in un momento così, ma quando parlai con lei, mi resi conto che ancora non aveva realizzato la gravità di quanto successo.
Lisa aveva visto l’ambulanza che portava via suo padre e, in quel momento, per lei Elvis era ancora nell’ospedale, perciò era confusa.
“E vero?” mi chiese “E’ vero che mio papà se n’è andato veramente per sempre?”.
Ancora una volta rimasi senza parole. Era la nostra bambina: era già difficile per me trovare conforto per la morte di Elvis ed ora non sapevo come dirle che non l’avrebbe visto mai più.
Feci cenno di sì con la testa e la presi tra le mie braccia. Ci abbracciammo e poi lei corse via e riprese a correre con il golf cart.
Adesso capivo che il suo era un modo per evitare la realtà.
La notte fu senza fine. In molto di noi stavamo seduti intorno al tavolo ed è lì che venni a sapere com’ è successo.
Mentre ascoltavo il racconto di come si erano svolti i fatti nelle ultime ore di vita di Elvis, mi sentivo che stavo sempre più male. C’erano talmente tante domande in sospeso. Elvis era stato praticamente lasciato solo per tutto quel tempo.
Improvvisamente mi resi conto che avevo bisogno di stare sola.
Salii di sopra, nella suite privata di Elvis, dove avevamo passato insieme un’infinità di ore della nostra vita.
Le stanze erano più in ordine di quanto mi aspettassi. Molte delle sue cose personali non c’erano più. Sul suo comodino non c’erano libri. Andai nel guardaroba ed era come se sentissi viva la sua presenza – il suo profumo unico inondava la stanza. Fu una sensazione inquietante.
Dalla finestra del soggiorno potevo vedere migliaia di persone ferme sull’Elvis Presley Boulevard in attesa che il carro funebre riportasse il suo corpo a Graceland.
La sua musica riempiva l’aria tramite le radio di tutto il paese che lasciavano il loro tributo al Re.
La bara aperta venne messa nell’entrata .

LISA MARIE PRESLEY – Dal libro “Elvis By The Presleys“ (pubb. 2005)

Non amo parlare di questo. Erano le 4 del mattino del 16 agosto. Avrei dovuto essere già a dormire, ma lui mi vide e mi disse di andare a letto.
Io dissi, okay, e mi baciò per darmi la buona nottecosì poi me ne andai in camera mia.
Poi lui arrivò e mi mi diede un altro bacio per augurarmi la buona notte.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi vivo.
Oggi per me è’ difficile stare nello stesso posto dove c’è stato mio padre.
Penso a Janis Joplin o Jim Morrison e penso a grandi artisti che hanno perso il contatto con la realtà, circondati da gente che ha succhiato la loro vita.
Mio padre era un uomo che ha dato aiuto a troppi ratti e troppi serpenti.
Quando lui iniziò, erano i tempi in cui il Ku Klus Klan bruciava le croci e la gente pensava lui fosse nero, ma a lui non poteva fregar di meno.
Continuò a frequentare i ritrovi di blues dove facevano la musica che gli piaceva.
Cantò con lo stile che lui voleva avere.
I bianchi lo amavano. I neri lo amavano, lo amava la gente che amava la grande musica. Questo è quello che conta!!!
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